LA TRACCIA – Un pensiero per domenica
Domenica 18 novembre – 33° del Tempo Ordinario (anno B)
DILATARE IL TEMPO
(Mc 13, 24-32)
Anche Gesù, parlando della fine, usa il linguaggio della sua epoca, detto apocalittico. Era l’idea di una conclusione imminente della storia, l’inaugurazione di un tempo nuovo e diverso. Molti, a quel tempo, si aspettavano un messia così: risolutore magico di tutte le cose, che con una certa vena di violenza nascosta, seppure per il bene, avrebbe posto fine all’epoca di crisi.
Gesù, però, pur vivendo in quel contesto, corregge in modo radicale questa visione della speranza. Prima di tutto distingue nettamente l’intervento di Dio, la venuta del Figlio dell’Uomo, dai cataclismi e dagli sconvolgimenti della natura e della storia, che non avranno mail l’ultima parola sull’umanità.
Non solo, ma il suo sguardo abbandona l’idea apocalittica e inizia a posarsi su un piccolo e tenero germoglio di fico, per ricordare che quando i nostri occhi scorgono il silenzioso movimento di una pianta siamo in grado di riconoscere che la bella stagione è vicina, che l’estate sta per arrivare.
Questa è la speranza cristiana: nessuna fuga dalla storia, nessuna conclusione violenta del mondo, ma un tempo che si dilata, un’attesa che diventa possibile e fruttuosa grazie alla presenza discreta, eppure laboriosa, del Signore Risorto e del legame vivente che abbiamo con lui.
Chi si aspettava (e anche oggi si attende) magie o segni grandi nel cielo, fu sicuramente deluso. La Risurrezione del Crocifisso non ha dato fine alla storia, ma l’ha riaperta, creando le condizioni perché ciascuno, lasciandosi liberamente lavorare e intenerire dal Vangelo, possa dare il proprio contributo all’umanizzazione del mondo.
Nell’epoca del tutto e subito, delle soluzioni facili e deresponsabilizzanti, del grande supermercato da cui prendere per sé ciò che apparentemente salva senza fatica, rischiamo di essere apocalittici, ansiosi, violenti, imbronciati. Anche alla religione, senza più sapere di ciò che si tratti, chiediamo una prestazione sacra, un generico sigillo sociale che ci difenda da un coinvolgimento responsabile. Ma il cristianesimo è tutt’altra cosa, se è vero che il Vangelo parla solo nella misura in cui “il germoglio è ormai tenero”, dunque in riferimento ad un lungo e appassionato cammino di ricerca e di desiderio.
E allora ben venga questa forte pagina dell’evangelista Marco, da tradurre così: “Non sono venuto, dice Gesù, a far finire il mondo come qualcuno di voi si aspettava, ma a dilatare il tempo, a renderlo significativo, a rivelare che si può stare nel campo della vita, anche quando il frutto non si fa subito vedere. Neanche io conosco l’ora, perché il punto non è questo. Si tratta invece di fidarsi fino alla fine, come ho fatto io, di attendere con laboriosità una parola nuova che prima o poi si affaccerà, di muovere la libertà perché dissodi ogni giorno il terreno fecondo della storia, trovandoci la promessa di Dio che non viene meno”.
Vogliamo avere ogni cosa sotto controllo, tutto e subito, senza scarti, come l’apocalittica, e così finiamo di non vivere più. Lasciamoci correggere nelle nostre attese da Gesù, deponendo le reazioni difensive, la paura che blocca la fiducia, per essere di nuovo in grado di scrutare anche solo un piccolo germoglio e abitare la vita quotidiana nella gioiosa fatica dell’attesa.