Domenica 24 giugno – Natività di Giovanni Battista
APERTURE
(Lc 1, 57 – 66.80)
Ogni volta che nasce un bambino accade qualcosa di unico. Si “rompono le acque” nel senso più ampio di
questa espressione: avviene una fessura, un’apertura inedita nell’umanità.
La percezione di Elisabetta, che insiste nel dare a suo figlio il nome di Giovanni, contro il parere comune,
è la manifestazione di come ciascuno di noi non sia mai soltanto il frutto immediato del suo paese, della
sua parentela, di una tranquilla continuità genealogica. Noi siamo sempre apertura, rielaborazione creativa
della vita che ci viene consegnata.
Per raggiungere e custodire la statura umana della nostra esistenza è necessario non avere timore di
questa frattura generativa, di questo taglio che mette in movimento la libertà, superando poco per volta la
tentazione maniacale di voler controllare tutto. Dio non è in ciò che è inesorabilmente uguale, fermo,
ripetitivo, ma in quelle piccole grandi fessure che, se vissute nella fiducia, ci mantengono aperti a ciò che
ancora non sappiamo.
Fin dalla nascita Giovanni Battista si pone al servizio di questa dinamica: indica un altro che deve venire,
smuove la normalità, corre in avanti per allargare gli sguardi. Nel suo stesso nome, che significa “Dio si
prende cura”, si rivela questo segreto: “Vai incontro a ciò che ancora non sai, a ciò che sfuggirà sempre al
tuo pieno controllo, non come una realtà nemica da cui difenderti, ma come una profondità rivelativa che
è già raccolta in un gesto di cura che la rende vivibile”. Per Israele i “reni” sono la sede di questa profondità
complessa, inconscia, e il salmo osa pregare così: “Sei tu che hai formato i mei reni e mi hai tessuto nel
grembo di mia madre. Ti rendo grazie perché hai fatto di me un prodigio, anche là dove di me e degli altri
riesco a comprendere molto poco”.
E’ davvero così: la vita, proprio perché umana e non esclusivamente biologica, sfugge di continuo. Il gesto
più saggio, dunque, è fidarsi di quell’Unico che ha già raccolto nella sua paternità, nel suo amore
incondizionato, ciò che a noi continua a sfuggire del tutto. E’ questo che ci permette di rimanere aperti,
esposti, in grado di riprendere e di rielaborare con responsabilità la nostra storia in modo inedito.
La via dell’umanizzazione non è il tentativo impossibile di sapere tutto per controllare e difendersi,
rimanendo presi nell’ingranaggio di una cattiva ripetitività, ma fidarsi che anche nell’incomprensibilità di
molte cose c’è una cura che ti raggiunge, un perdono che guarisce il fallimento, una strada che si apre, uno
sguardo benedicente su di te e sull’altro. E non è forse così che nasce la possibilità di essere sanamente
critici quando è necessario e sufficientemente creativi per realizzare qualcosa di nuovo?
Elisabetta ha compreso bene tutto ciò. Suo figlio ha trasformato questo compito nella vocazione di una
vita, fino a divenire precursore profetico di Gesù, a favore di tutti, perché anche noi potessimo continuare
a “rompere le acque”, a rinascere nella fiducia accordata a quelle piccole aperture quotidiane che non ci
trasformano in biechi controllori, ma datori e moltiplicatori di umanità.